Corso di scrittura fondamentale: le parole che non trovo

corso di scrittura fondamentale

Nel mese di maggio della scorsa primavera i soci di Aifb si sono cimentati in un’impresa impegnativa. Parlo di un corso di scrittura fondamentale per migliorare l’abilità nell’uso della lingua scritta. Lo scopo? Cercare “Le parole che non trovo”, quelle insomma che servono per raccontare sia il mondo interiore sia quello che ci circonda.

Docente del corso Alessandro Tacchino, direttore editoriale delle Edizioni Vallescrivia, collaboratore in Einaudi e Feltrinelli, dove scrive anche per Feltrinelli Librerie.

Alessandro è un ragazzo giovane con le idee chiare, la sua strada maestra sono i libri, libri da leggere e libri da scrivere.

Ci siamo affidati a lui, anima e cuore…

A che cosa serve un corso di scrittura fondamentale a chi scrive di cibo

Se è vero che il cibo è sempre e comunque un atto culturale, e noi in Aifb crediamo che sia vero, in cucina si riscoprono emozioni e sensazioni. Si ritrovano ricordi legati a profumi antichi e a gesti ripetuti tante volte, in molte case, che costruiscono l’identità profonda delle persone e dei territori, l’impalcatura della cultura di un luogo. Ebbene noi siamo ansiosi di comunicare tutto questo, trasmettendo non solo la ricetta ma anche l’incanto di quel cibo, il suo tesoro. A volte la narrazione passa attraverso i gesti che si compiono sul tavolo della cucina, a volte invece sceglie le parole, la voce e il testo scritto che devono essere abili interpreti, tanto da sembrare musica. Per questo il nostro corso di scrittura si chiama “Le parole che non trovo”, perché si propone di entrare nel profondo di ogni persona, per addomesticare le emozioni trasformandole in parole potenti da mettere su carta, parole che possano cambiare la nostra visione e quella degli altri. Riuscire in questo non è semplice. Ogni volta che scriviamo, fosse anche una semplice ricetta o la lista della spesa, raccontiamo qualcosa di noi: per essere efficaci occorre conoscere le basi della tecnica. Da qui la necessità di un corso di scrittura fondamentale. Necessario perché insegna i fondamenti della tecnica, partendo dai testi e dalle nozioni di base? Sicuramente sì. Ma mi domando se sia fondamentale saper compiere il percorso interiore che precede la scrittura, e se sia fondamentale leggere per poter scrivere e, soprattutto, se sia fondamentale guardare il mondo fuori e dentro di noi con occhi curiosi, che vadano alla ricerca di storie da raccontare. E la risposta è ancora una volta sì. Nel corso di scrittura abbiamo esplorato tutto questo, e ce ne siamo fatti un’idea.

È stato così entusiasmante che non vogliamo più smettere.

Le caratteristiche del corso di scrittura fondamentale

Avevamo in programma sei incontri di due ore ciascuno. Ogni lezione prevedeva un momento iniziale di spiegazione teorica e di confronto, un tempo di lettura condivisa e di analisi del testo e, infine, l’assegnazione di un compito (facoltativo ma indispensabile) di scrittura, secondo un tema assegnato con un certo numero di battute da rispettare. Con garbo e determinazione Alessandro ci ha condotti per mano su quella via, per sei appassionanti lezioni:

  • Architetture
  • Mettersi comodi
  • Dare corpo
  • Sensazioni
  • Da lontano
  • Restituire

Architetture: ogni storia è un viaggio, ed è un eroe colui che lo percorre, incontrerà altri personaggi buoni e meno buoni, avrà cadute e risalite. I racconti insomma, per essere appassionanti, devono rispettare una struttura precisa, ed è proprio questo che abbiamo analizzato la prima sera e che, per compito, abbiamo messo su carta.

Mettersi comodi: ad osservare lo spazio intorno a noi. Il nostro esercizio è stato osservare e descrivere, senza dimenticare la struttura, ricordando che la narrazione si svolge in livelli concentrici e che il filtro della narrazione è lo scrittore stesso che si guarda intorno, annota e descrive dal suo punto di vista o da quello di un personaggio.

Dare corpo: i personaggi. Lo scrittore dovrebbe sapere tutto dei suoi personaggi, conoscerne l’anima e i pensieri, il passato e il futuro. La penna che scrive non può essere presa alla sprovvista da uno dei suoi personaggi, perché li crea, li governa e li addomestica. Così ogni racconto dev’essere coerente e i fatti fondamentali di ogni storia, quella che il personaggio interpreta, devono essere chiari allo scrittore fin da subito. Tutto va pensato in anticipo, e rivisto più volte fino alla coerenza perfetta. I personaggi verranno descritti con cura senza risparmiarsi.  Non che il mistero sia inutile, anzi, ma non per lo scrittore (sono certa, però, che molti personaggi abbiano sorpreso la penna di scrittori abilissimi con qualche imprevisto).

Sensazioni: sai descrivere la vergogna in 2000 battute senza mai nominare quel sentimento o qualunque suo sinonimo? Io no, non sapevo farlo, ma ho provato e qualcosa ho scritto. Ho dovuto tornare nel passato e frugare dentro la memoria, per rivivere una sera in cui mi ero vergognata a morte, e poterla raccontare.

Da lontano: è tutta una questione di punti di vista. Scrivendo si possono raccontare le cose in tre modi diversi. Occorre sceglierne uno e rispettarlo, e quello sarà il punto di vista da cui guardare gli avvenimenti del racconto, i luoghi e i personaggi, per scrivere la nostra storia. Ce lo insegnano maestri illustri, uno su tutti il Manzoni, croce e delizia delle nostre ore al liceo.

Per saper scrivere è indispensabile leggere, il più possibile, per imparare nuove parole, quelle che non trovo, e averle a disposizione la prossima volta in cui le si cercherà.

Infine: Restituire, che bella parola! Abbiamo così restituito gli uni agli altri qualcosa di quello che abbiamo imparato. Scrivere costringe a un viaggio interiore, è difficile, ma efficace: mettere su carta le proprie emozioni, i sogni, la vita, libera l’anima, ed è un dono per gli altri.

Obbiettivi raggiunti

Qualcuno ricorderà a scuola il saggio finale. Noi lo abbiamo presentato l’ultimo giorno al nostro giovane professore che, di questo famigerato saggio, ci aveva parlato fin da subito. Eravamo preparati ma è stato ugualmente difficile, anche se la consegna era semplicemente una ricetta: pane quotidiano per noi food blogger. Abbiamo raccontato un piatto in 10.000 battute: luogo d’origine, legame affettivo, ricetta e personaggi. Senza dimenticare nulla di quel che abbiamo imparato, anzi mettendolo in pratica. Un incipit efficace, un’attenta descrizione del luogo e dello spazio, i personaggi della storia e infine la ricetta, i suoi profumi e le emozioni che racconta. Insomma la sua magia.

Quell’ultima sera di corso gli studenti hanno chiesto a gran voce di essere rimandati a settembre, e così è stato. “Le parole che non trovo”, corso di scrittura fondamentale, riprenderà dopo l’estate con nuove lezioni e noi non vediamo l’ora.

Per incuriosire il mio lettore facendo sì che desideri davvero iscriversi al prossimo corso di scrittura con Alessandro, riporto di seguito qualche riga dei nostri saggi finali: imperfetti ma meravigliosamente personali.

gallina padovana dal ciuffo nero

Chiedimi se sei felice

Di Anna Maria Pellegrino

Pina, ma secondo te sei felice? chiedo improvvisamente alla mia gallina padovana.

Pina mi guarda negli occhi, spostando con un gesto secco del capo il ciuffo nero.

Facciamo così, spiegami come se fossi un bambino di sette anni. Non dovrebbe essere difficile.

Dai, smettila, sono seria – reagisco come punta sul vivo – Cosa vuol dire per un animale essere felice? Noi due facciamo parte della stessa catena alimentare ed io, come Homo sapiens sapiens sono stravaccata su tutto il resto del Creato. Certo, da qualche parte c’è anche scritto che è cosa buona e giusta, ma ultimamente sento uno strano malessere, un dolore sordo che mi inquieta più di quanto dovrebbe.

Sei preoccupata che lo stravaccamento venga meno? Nel DNA di Pina dev’esserci un gene al vetriolo. Pina è sempre più perplessa.

Allora facciamo che cerchi di spiegarti come se io avessi quattro anni, va bene? Ecco, siediti qui vicino a me, facciamo venire anche Agata, Meggie e Sorcino così vediamo se in quattro riusciamo a capirti. O aiutarti a capirti da sola. Credo sia questo il problema.

Pina ha ragione, sotto le piume ha un cervello da fine pensatore. E sa guardare sempre oltre.

Il tavolo della cucina improvvisamente si riempie di ingredienti e di cibo, una merenda improvvisata, la serenità di un pomeriggio non proprio uggioso ma vivacemente variabile. Fare i biscotti assieme è una forma di meditazione, di preghiera laica. La nostra specialità sono i biscotti bestiali, letteralmente. (…)

torta pasqualina

Pasqualina e la nonna

Di Silvia Tavella

Potresti forse pensare che Pasqualina sia una bambina paffuta, e che abbia una nonna che la coccola.

Ma non è così.

La storia che racconto oggi è quella dell’incredibile (ma vero) rapporto amore – odio che mia nonna Ada aveva con Pasqualina, la regina delle torte salate genovesi. La cucinava poche volte l’anno con la stessa concentrazione, la stessa fatica e l’organizzazione che occorrono per  scalare l’Annapurna.

La nonna era piccolina, elegante e molto ben educata, attenta alla forma e al decoro. Dai miei quattordici anni in avanti, ogni estate, mi comunicava che i costumi interi quell’anno erano l’ultima moda. Come lo sapesse non so, perché al mare io non l’ho mai vista, nonostante tutti abitassimo a Genova e avessimo, come ho già detto, la cabina ai bagni Lido. Qualche sera veniva a piedi fino alla spiaggia a prendere il nonno e lo fulminava con gli occhi perché salutava tutte le signore in bikini. Le sue passioni erano i bei vestiti, la sarta e la modista, i gioielli, le pellicce e la montagna d’estate, dove però non camminava.

Ma aveva un’altra passione, la più sfrenata e quotidiana: le pulizie di casa. La sua compagna di avventure si chiamava Thea, la signora delle pulizie.

La torta pasqualina dunque, veniva fatta dalla nonna e dalla Thea che, quel giorno, tornava nel pomeriggio e non passava la lucidatrice, ma legava un grembiulino bianco sulla cappa blu e si trasformava in aiuto cuoca.

Era un rituale sacro, da svolgere con cura e in silenzio. (…)

Nonostante la scuola della nonna, nella mia vita adulta ho fatto molte volte la torta pasqualina, di cui condivido volentieri la ricetta:

Pasqualina di carciofi e bietole.

pagnotta di pane

La zuppa di Pietro il colonnello

Di Cristina Pilieri

(…) Il pane lo preparava Annina, si alzava all’alba per impastare. Aveva imparato da piccola osservando i gesti e la lavorazione delle donne di famiglia.

Nel grande catino versava la semola del “Tricu Ruiu,” antica varietà di grano duro dal colore ambrato tendente al rosso  ruggine e che si coltivava in Gallura.

Aggiungeva il panetto di lievito madre, sciolto in un po’ d’acqua, tramandato per anni dalla famiglia e poi dalle precedenti lavorazioni del pane. Lo teneva avvolto in un panno di lino riposto dentro una cassetta con coperchio, come quella dei vini pregiati e custodita dentro un grande mobile a più ante che serviva come dispensa della cucina. Versava l’acqua tiepida e contemporaneamente a grandi pizzichi  il sale fino, con le braccia robuste iniziava ad impastare e poi a “cariare“ la pasta come usiamo dire, in termine dialettale, massaggiare l’impasto, fatto con la parte del palmo della mano, quella più forte, per formare la massa glutinica.

Terminata la lavorazione e ridotto ad una palla, l’impasto lo metteva dentro il catino al caldo e ben coperto con teli di canapa grezza per iniziare la prima lievitazione. Passate alcune ore Annina riprendeva l’impasto del pane, ne staccava un pezzo e lo conservava nella pezza di lino per utilizzarlo come lievito madre per le pianificazioni future. Poi dal restante impasto staccava gli altri pezzi, li lavorava arrotolandoli sul piano di legno dandogli la forma a cilindro, dalla pezzatura di circa mezzo chilo, formava pian piano le mele, facendo delle strozzature tra la massa della corona da suddividere in tre, non di più, e poi lo chiudeva a cerchio, facendo combaciare le due estremità e sovrapponendole schiacciava con le dita per unirle. Disponeva le forme del pane sopra ad un tavolo di legno profumato di ginepro, le copriva con dei teli e le lasciava lievitare nuovamente per un paio d’ore. (…)

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