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Pubblicazione: 30/04/2019
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La cucina napoletana e le tradizioni legate ad essa ci riportano alla mente immagini del passato. Reminiscenza di una cucina nata alla corte di un regno, più che in una cucina povera e contadina.
Anche il tempo dedicato allo stare a tavola è traccia di un’aristocrazia ricca e gaudente che amava intrattenere ospiti e realizzare alleanze tra un bicchiere di buon vino e un piatto succulento. Ancora oggi nella cucina napoletana ritroviamo gli stessi piatti e gli stessi rituali antichi. Come il rito del pranzo della domenica in famiglia, considerato un pranzo solenne, che inizia già alle prime luci dell’alba quando nella casa e giù, fra gli stretti vicoli, si diffonde nell’aria l’odore del ragù e del caffè. Quel pranzo della domenica che inizia con l’immancabile ragù che deve aver pippiato per almeno cinque ore, e finisce con il dolce adatto a “quella” ricorrenza. Perché a Napoli, si sa, ogni ricorrenza ha il suo dolce. La pastiera a Pasqua perché di buon auspicio per il raccolto, gli struffoli e i rococò a Natale, il migliaccio a carnevale e le zeppole di San Giuseppe ovviamente nel giorno dedicato al Santo. Un dolce per ogni celebrazione e per ogni situazione, come le sfogliatelle, antesignane dello street food, o come il babà dolce che rientra nella categoria dei dolci alla moda parigina, da portare in dono all’ospite.
Insomma è difficile che una famiglia di napoletani, anche di nuova generazione, mangi cibi surgelati, sicuramente molto pratici ma che danno poca soddisfazione al palato e nessun ricordo al cuore.
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La cucina è l’elemento che maggiormente caratterizza un popolo e un’epoca. Per comprendere la cucina napoletana dobbiamo ripercorrere la linea del tempo a ritroso, fino al XVIII secolo. In quell’epoca sono stati anticipati mode e costumi arrivati poi fino ai nostri giorni, ed è nella Francia del ‘700 che si inizia anche a scrivere e a diffondere la cultura gastronomica.
La cucina francese del ‘700 rivendicava orgogliosamente la sua specificità, iniziata già nel ‘600 alla corte del Re Sole. La cultura culinaria divenne un aspetto tipico della cultura d’oltralpe e venne esportata con successo e imitata nel mondo.
La cucina napoletana diventa Aristocratica
Nel 1768, Maria Carolina d’Asburgo giunse a Napoli come sposa di re Ferdinando IV di Borbone. Dicono avesse un gran bel caratterino e dei gusti assai difficili. Non amava la cucina napoletana verace e sincera come la amava il marito, ma preferiva quella mitteleuropea e, come ogni aristocratico dell’epoca, apprezzava quella francese che era già molto alla moda. Fu così che, nonostante la tradizione culinaria partenopea avesse già delle basi piuttosto solide, Napoli divenne dimora di cuochi francesi venuti a dar lezioni di arte culinaria e a prendere servizio presso famiglie altolocate. Le passioni della regina furono seguite da tutti gli aristocratici napoletani che iniziarono a seguire la moda della famiglia reale.
Sia come sia nacque, tra la cultura culinaria francese e la cucina napoletana, uno straordinario connubio di cucina partenopeo-transalpina, frutto dell’unione di tecniche straniere e prodotti locali. L’intelligenza e l’inventiva dei cuochi napoletani, intimamente legati agli ingredienti del sud, subirono un rinnovamento che ha dato come risultato una cucina sontuosa fatta di timballi, pasticci, arrotolati di carne, impasti lievitati farciti di ogni ben di Dio, degna delle tavole dell’aristocrazia e dei regnanti di mezza Europa che transitarono alla corte borbonica.
I nomi franco-napoletani e gli onorati Monsù
I nomi dei piatti, tutt’ora in uso, sono la chiara dimostrazione del connubio tra gastronomia francese e cucina napoletana. Nomi ispirati dalla lingua francese che assumono i suoni dell’idioma locale diventano: il gattò, il culì, il ragù, i potaggi e il purè di cui è ricco il fortunato trattato di cucina “Il cuoco galante” di Vincenzo Corrado, pubblicato per la prima volta a Napoli nel 1773. Erano passati solo cinque anni da quando la pretenziosa Carolina d’Asburgo era arrivata a Napoli.
Babà da passeggio, considerato tra i dolci aristocratici della pasticceria napoletana
Dal francese arriva pure l’appellativo dato ai cuochi, chiamati monsù, storpiatura di monsieur, attributo dato ai cuochi di casata. Un titolo di tutto rispetto dato a chi comandava nelle cucine di palazzo. Il monsù era riverito, ben retribuito e comandava intere brigate in cucina. Al monsù era affidata la reputazione gastronomica dell’aristocratica famiglia che lo aveva al proprio servizio. Infatti al titolo di monsù segue il nome di battesimo accompagnato dal nome della famiglia aristocratica in cui presta servizio: troviamo quindi monsù Pietro di Cammarata o monsù Alfonso di Sirignano per citarne alcuni di famosi. Il monsù non solo riproduceva ricette ma creava, dava libero sfogo all’inventiva per stupire signorie ospiti elaborando le materie prime delle ricche dispense di palazzo.
Il ruolo di monsù era così ambito che l’arte veniva tramandata per asse ereditaria, cosa che troviamo ancora oggi nelle famiglie di cuochi del sud. Diventano delle vere e proprie dinastie in cui l’arte culinaria e il rango passa di padre in figlio come quella dei Ruggiani o dei “Pallino”, che in realtà si chiamavano Micera.
I monsù artefici di una cucina colta e a volte stravagante hanno lasciato un’eredità che ancora vive sulle tavole partenopee e siciliane, soprattutto quelle dei giorni di festa. Queste figure dominarono il mondo culinario fino all’unità d’Italia e anche per alcuni decenni a seguire. Alcuni di essi sono entrati nella leggenda con le loro creazioni, come monsù Terramoto con il suo Framasson, soffice dorata brioche ripiena di risotto e di una salsa vellutata con gamberi vongole cozze e aragosta. O monsù Starace con il suo Timpano di maccheroni alla Maria Sofia dedicato all’ultima regina di Napoli: un timballo di mezzanelli di pasta che ancora oggi viene chiamata maccheroni della regina rivestito di formaggio e farcito con fegatini, cuori di fagiano, creste di gallo, tartufi irpini. O ancora monsù Francesco di casa Barracco che ideò un provolone parzialmente svuotato e riempito con funghi, polpette, pasta condita con sugo di carne che veniva infornato fino ad ammorbidirsi.
Maria Sofia ultima regina di Napoli
Persino Giacomo Leopardi, durante il suo soggiorno napoletano, si lasciò conquistare da monsù Pasquale Ignarra, cuoco in casa dell’amico Antonio Ranieri, tanto da stilare un elenco scritto dei suoi piatti preferiti, conservato presso la biblioteca nazionale di Napoli e che ha ispirato il libro di Antonio Tubelli e Domenico Pasquariello “Leopardi a tavola”. Tra le debolezze della gola del poeta spicca la sua passione per i gelati e non a caso l’arte della gelateria, che aveva avuto i primi fasti nella Firenze rinascimentale, nel regno delle due Sicilia fu elevata a suprema raffinatezza.
Uno straordinario successo alla corte borbonica, gelati e sorbetti sono una presenza costante e gradita agli ospiti internazionali. È il caso di dire che tra pasticci timballi e gelati, gli stomaci dell’aristocrazia si dimostravano ben allenati, ma anche che il lascito della loro passione per le prelibatezze e della fantasia dei monsù è inestimabile e ha contribuito a conferire alla cucina napoletana questa magnificenza aristocratica che forse non avrebbe avuto.
Articolo di Paola Sartori
Fonti:
Gli aristopiatti, Lydia Capasso e Giovanna Esposito – Guido Tommasi Editore
La cucina arisocratica napoletana, Franco Santasilia di Torpino – Grimaldi Editore
Il gastronomo educato Alberto Denti di Pirajno- ed. Neri Pozza
La pasticceria Napoletana di Luciano Pignataro – Newton Compton editori
Le ricette di mammà di Pasquale Riccittelli – ed. Bacco Arianna
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